Ci ho messo un po’ a scriverci su. A caldo, magari, ciò che
avrei scritto sarebbe stato banale e retorico. E lui – Marco, o SuperSic come
eravamo un po’ tutti soliti chiamarlo – non era né retorico né banale. Simpatico
e buffo, sì. Non potevi non volergli bene. Allegro e spontaneo in ogni momento. Anche a
inizio stagione, quando tutta la Spagna gli era contro. Colpa del suo essere
troppo spericolato in sella alla moto. Scorretto, a detta iberica (Lorenzo e
Pedrosa su tutti). Ma scorretto, lui, non lo è mai stato. Spericolato e
irruento sì: a Le Mans aveva travolto Pedrosa, che nella caduta si ruppe una
spalla e, ad Assen, Lorenzo. Prima e dopo, una serie di cadute causate dalla tanta
voglia di spingere al massimo e stare sempre più avanti. La stessa voglia che domenica,
probabilmente, gli si è ritorta sadicamente contro.
Simoncelli resta attaccato alla moto, invece di andare verso
l’esterno, tagliando la curva e, inevitabilmente, la strada a Edwards e Rossi
che se lo ritrovano davanti quando ormai è troppo tardi per scansarlo. L’impatto
è violentissimo e Sic perde addirittura il casco. Il tragico epilogo lo
conosciamo tutti.
Si dice che nel motociclismo, grazie al continuo sviluppo
dei sistemi di sicurezza, sia possibile evitare ogni morte. Tranne, purtroppo, quella in cui
il motociclista viene investito. È accaduto
poco più di un anno fa a Shoya Tomizawa, qualche giorno fa a Marco Simoncelli.
Le dinamiche sono in parte simili. L’inevitabile è accaduto: due volte in un
anno.
Nel 2003 è stato invece il turno di Daijiro
Kato. Circostanze molto diverse da Shoya e Sic: il giapponese della Honda andò
a schiantarsi per un problema tecnico alla sua moto. Anche se la versione
ufficiale del team nipponico ha preferito parlare di “se” e di “ma” che quasi nessuno
ha mai compreso fino in fondo (qui).
Sic era uno di quelli che, se cadeva cento volte, centouno
volte era ancora in piedi. Più forte di prima. Sembrava invulnerabile. Di gomma, alle volte. E dopo ogni caduta, non aveva alcun problema ad affermare di
essere stato un “coglione”, come disse dopo Assen, di aver sbagliato lui
qualcosa o di essere una “patacca”.
In moto era l’antitesi dell’eleganza, ma aveva talento.
Tanto. In prova riusciva ad ottenere piazzamenti da big, in gara rovinava tutto
troppo spesso. Domenica voleva vincere, salire sul gradino più alto del podio.
Quel gradino che, a sua detta, lo faceva apparire meglio in televisione.
Marco Simoncelli è morto. Andando via, porta con sé anche la
MotoGp. O almeno, ciò che ancora rimaneva di un mondo non più romantico già da
qualche tempo, fatto di verità non dette (la morte di Kato) e imposizioni
assurde (correre a due passi da Fukushima).
Ciao Sic. E non tagliare quei capelli.
-"Non hai paura di ammazzarti se fai un
incidente?"
-" No. Si vive di più andando 5 minuti al massimo su una moto come questa,
di quanto non faccia certa gente in una vita intera".
-" No. Si vive di più andando 5 minuti al massimo su una moto come questa,
di quanto non faccia certa gente in una vita intera".
Marco Simoncelli (20
gennaio 1987 – 23 ottobre 2011)
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